L’obbligo di adeguamento alle misure di contenimento del Covid-19 ha comportato, tra l’altro, la chiusura degli impianti sportivi, impedendo lo svolgimento di attività motoria, sportiva e di fitness.
L’impossibilità di fruire di servizi (già pagati) ha indotto gli utenti delle strutture, per lo più supportati dalle associazioni dei consumatori, ad attivarsi per ottenere la restituzione delle quote.
Non sempre, tuttavia, una simile pretesa può ritenersi giustificata alla luce della normativa vigente.
È importante, pertanto, cercare di fare luce sul punto, nonché sulle eventuali possibili alternative di tutela per l’utente.
Al fine di comprendere chi abbia diritto a ottenere il rimborso della somma precedentemente corrisposta per potere godere dei servizi resi dagli impianti sportivi, è opportuno distinguere varie categorie di fruitori dei predetti servizi, sotto il profilo soggettivo, ovvero in relazione allo status dei medesimi: associati, tesserati di a.s.d., s.s.d., nonché, più in generale, utenti.
Con riguardo agli associati, è doveroso ricordare la necessità di intendere tale categoria in senso tecnico, ovvero limitata a coloro i quali abbiano rispettato pedissequamente le modalità statutarie per acquisire lo status di associato.
La norma di riferimento è l’art. 24 c.c. che, seppure riferita alle associazioni provviste di personalità giuridica, si ritiene applicabile anche ai sodalizi privi di un simile riconoscimento. La prescrizione appena citata vieta la possibilità di ottenere la restituzione dei contributi versati in caso di scioglimento del rapporto associativo (recesso ed esclusione dei medesimi); a maggior ragione un simile divieto può trovare applicazione durante la vigenza del rapporto.
La disposizione codicistica si riferisce senza dubbio alle quote associative, ovvero alle quote corrisposte per godere dello status associativo ed esercitare i relativi diritti; pare invero possibile estendere il contenuto dell’art. 24 c.c. ai contributi pagati dai soci per fruire dei servizi resi dall’associazione, ove in linea con le finalità associative, i requisiti statutari e purché possano ricondursi alle caratteristiche del rapporto associativo. Al riguardo, non può trascurarsi che gli associati sono legati da un contratto associativo plurilaterale con comunione di scopo.
In presenza dei citati presupposti, sembra invero doversi escludere la ripetibilità dei contributi versati dagli associati.
A diverse conclusioni si può pervenire con riguardo agli altri utenti degli impianti sportivi (tesserati o meno) non legati da alcun rapporto associativo. Il riferimento è ai tesserati di associazioni sportive dilettantistiche o di società sportive dilettantistiche non soci (sulla differenza fra soci e tesserati, si veda, da ultimo e per tutti, Differenza tra socio e tesserato in una a.s.d., in Newsletter n. 22/2019, ove ulteriori rinvii), nonché, più in generale, agli utenti della struttura.
A tal fine, è doveroso, tuttavia, valutare eventuali disposizioni contenute nel regolamento della struttura.
L’obbligo di chiusura degli impianti sportivi ha impedito lo svolgimento di attività sportiva, rendendola di fatto impossibile.
L’impossibilità sopravvenuta della prestazione, se definitiva, costituisce (ex art. 1463 c.c.) una causa di risoluzione del contratto a prestazioni corrispettive – non con comunione di scopo -, a cui consegue, da un lato, la liberazione del debitore e, dall’altro, l’obbligo di restituzione della prestazione ricevuta, divenuta sine titulo.
L’applicazione di tale rimedio, che, come detto, presuppone lo scioglimento del rapporto con l’utente, può creare problemi di liquidità per il gestore.
Diversa è la situazione che si viene a creare laddove l’impossibilità di usufruire del servizio reso dal centro sportivo sia solo temporanea, ovvero destinata a finire, cessata l’emergenza.
In tal caso, se l’utente intende continuare il rapporto con il sodalizio piuttosto che interromperlo, può essere richiamato l’art. 1256, 2 comma, c.c., ai sensi del quale l’obbligazione si estingue solo nel caso in cui l’impossibilità perduri fino al momento in cui il creditore non ha più interesse a ricevere la prestazione.
Applicando tale disposizione al caso concreto (vale a dire impossibilità di fruire dei servizi resi dalle società sportive), ne deriva che l’utente, qualora sia interessato a proseguire il rapporto con il gestore della struttura sportiva, potrà ottenere strumenti di tutela alternativa alla restituzione del prezzo pagato.
Si pensi, ad esempio, alla proroga della durata del contratto (temporaneamente “sospeso”) o al recupero degli ingressi. Tali rimedi, i quali presuppongono l’interesse dell’utente a continuare a praticare attività sportiva presso la medesima struttura anche successivamente la fine dell’emergenza, devono essere concordati fra le parti.
La circostanza per cui si tratta di strumenti utilizzabili solo in presenza di interesse a ricevere la prestazione anche in futuro, impone una valutazione caso per caso, alla luce della situazione concreta.
Un altro mezzo di tutela ipotizzabile è l’emissione del cd. voucher, previsto dall’art. 88 del decreto “Cura Italia”. Si tratta di uno strumento che, seppure riservato espressamente dal legislatore alle attività culturali divenute impossibili ai sensi dell’art. 1463 c.c., sembra potere essere esteso al mondo sportivo.
Ai sensi di tale disposizione, in pratica, il gestore è tenuto a emettere un voucher di importo pari all’importo della somma pagata e da recuperare, utilizzabile entro un anno dall’emissione.
L’offerta all’utente delle tutele citate dovrà essere vagliata alla luce della sostenibilità finanziaria.
Un accenno deve essere fatto all’ipotesi in cui il pagamento del corrispettivo per il godimento dei servizi da parte dell’utente, anticipato da una società finanziaria, è restituito mensilmente dall’utente attraverso il pagamento di un bollettino. Al fine di comprendere esattamente le modalità di cui può godere l’utente per sospendere l’erogazione di tale finanziamento, è necessario leggere attentamente le clausole sottoscritte dal medesimo al momento della conclusione.
La difficoltà del gestore di attuare le tutele sopra citate, pone il problema di valutare giuridicamente il valore dell’eventuale rifiuto.
Tecnicamente, il rifiuto ingiustificato dovrebbe inquadrarsi come inadempimento, con tutte le conseguenze che ne derivano sotto il profilo della responsabilità patrimoniale.
La mancata restituzione del prezzo e, più in generale, l’impossibilità di rispettare gli impegni economici assunti precedentemente deve, tuttavia, essere valutata alla luce dell’attuale momento storico e delle difficoltà economiche. Un simile aspetto è stato invero codificato dal legislatore dell’emergenza come possibile esimente da responsabilità per il debitore.
Ai sensi dell’art. 91 del decreto cura Italia, “il rispetto delle misure di contenimento di cui al presente decreto è sempre valutata ai fini dell’esclusione … della responsabilità del debitore anche relativamente all’applicazione di eventuali decadenze o penali connesse a ritardati o omessi adempimenti”.
Non può non trascurarsi il fatto che il legislatore non abbia previsto espressamente un’esimente da responsabilità, ma solo ipotizzato che debba tenersi conto della difficoltà ad adempiere al fine di poterne escludere la responsabilità.
Il rifiuto di consentire il recupero delle mensilità, degli ingressi o l’emissione del voucher deve piuttosto essere valutato alla luce della sostenibilità finanziaria.
È auspicabile, in definitiva, che le parti riescano a trovare un accordo pacifico e risolutivo, in grado di soddisfare gli interessi di entrambe e di consentire una ripresa proficua dell’attività sportiva.
Infine, sulla domanda circa l’esito della dichiararazione di pagamento – ai fini della detraibilità -, è opportuno distinguere: se la somma residua è comunque superiore o pari a 210 € non sembra necessaria un’ulteriore dichiarazione, diversamente, laddove la somma sia inferiore a tale importo, dovrà essere emessa una dichiarazione in cui si precisa la quota effettiva pagata dall’utente al netto della restituzione.