Più volte, anche in questa newsletter, abbiamo sottolineato come il concetto di sport in Italia e in generale in Europa stia radicalmente cambiando, rimanendo legato sempre meno alla competizione e diventando sempre più salute, socializzazione, benessere.
Lo dicono a chiare lettere tutte le indagini di questi ultimi anni, dal Libro Bianco della UE sullo sport, all’indagine ISTAT del 2005, intitolata appunto “Lo sport che cambia”.
Ora anche negli USA, tradizionalmente patria della competitività in tutti i campi, e di eccellenze in moltissime discipline, ci sono piccoli segnali in questa direzione, fra i quali senz’altro il più importante è quello che illustriamo in questo articolo.
La notizia è la decisione di Beverly Daniel Tatum, presidente dello Spelman College, di abbandonare lo sport competitivo a livello nazionale, destinando le risorse economiche così risparmiate a un programma di sport per tutti gli allievi.
Lo Spelman College di Atlanta è una delle più antiche e prestigiose università degli USA, storicamente frequentata dalle componenti delle più prestigiose famiglie afroamericane, dalle figlie di Martin Luther King a quelle di Sidney Poitier e Morgan Freeman.
L’occasione per abbandonare le competizioni a livello nazionale, uscendo dalla ben nota federazione sportiva delle università statunitensi, la National Collegiate Athletic Association (NCAA), è stata l’annuncio da parte di svariati college di lasciare la Great South, una delle conference nelle quali i campionati NCAA sono articolati, che si è trovata a non avere un numero sufficiente di membri e quindi costretta a chiudere.
Da ciò sarebbe derivata la necessità per la Spelman di iscriversi a un’altra conference, con un sensibile aumento dei costi per le trasferte, oltre alla necessità di adeguare gli impianti, parte dei quali non regolamentari (per fare un esempio, per poter giocare l’ultimo campionato di basket, è stata necessaria una specifica dispensa da parte della NCAA per l’utilizzo di un campo divenuto più corto del regolamentare)
Ma se questa è stata l’occasione, le considerazioni di fondo sono state altre, ben più importanti:
– i costi, perché gli 80 studenti/atleti che partecipavano ai campionati NCAA nelle varie specialità, costavano al College circa 900.000 dollari annui; non una somma enorme (la Spelman non è certo fra le università a spiccata “vocazione sportiva”), ma risorse non trascurabili che possono ora essere destinate a favorire l’accesso allo sport a un numero decisamente più ampio di studentesse, consentendo la pratica di discipline meno competitive e più orientate alla tutela della salute
– e la tutela della salute è un altro importantissimo elemento su cui si è basata la scelta; le statistiche sullo stato di salute delle donne nere americane sono infatti impressionanti: il 51% delle donne sopra i 20 anni è obeso, contro il 32,8 delle bianche, il 9,5% delle donne nere è malato di diabete, contro il 5,4% delle bianche (e già i dati sulle donne bianche non sono certo lusinghieri); analoghi sono i dati sulle malattie cardiovascolari. Non sono certo le abitudini di vita dei 2.100 studenti della Spelman che possono spostare queste cifre, ma la speranza è che il prestigio del collegefaccia sì che il messaggio giunga anche al di fuori delle sue mura
– e infine, la NCAA è stata recentemente teatro di numerosi gravissimi scandali, da allenatori condannati per pedofilia a manager sportivi violenti, dalla corruzione al doping, non meno del mondo dello sport professionistico e con effetti resi ancor più devastanti proprio dal fatto che se è grave corrompere e drogarsi per vincere in uno sport professionistico, la cui finalità è sostanzialmente il danaro, lo è ancor di più nello sport dilettantistico/universitario, la cui finalità (almeno quella continuamente dichiarata) è quella di educare e insegnare a sacrificarsi per eccellere.
A queste considerazioni si affianca il fallimento del vecchio modello secondo il quale buoni risultati sportivi danno prestigio, e prestigio significa più studenti e possibilità di chiedere rette più alte, oltre che maggiori donazioni da mecenati e sponsor (ricchi genitori e imprese).
Un recente studio degli American Institutes for Research, chiamato Delta Cost Project, ha rivelato infatti che le università con squadre nei campionati di prima divisione della NCAA spendono da tre a sei volte in più per formare un atleta di quanto investono nell'istruzione degli altri studenti; fino a giungere al caso della Football Bowl Subdivision, nella quale uno "studente-atleta" costa all’università quasi centomila dollari annui, contro i 14.000 di uno studente normale. Se prevalere nello sport significa avere più risorse, anche sotto il profilo strettamente economico i costi sono comunque nettamente superiori ai benefici.
La decisione della dottoressa Tatum, che è docente di psicopatologia clinica e quindi anche professionalmente sensibile ai temi della salute e dei modi di vita, è per il momento condivisa solo da alcune piccole università, quali il New York City College of Technology e la University of Maryland, e al momento appare difficile che grandi college possano seguire il suo esempio; l’attenzione che ha suscitato non è però poca, se il New York Times ha aperto uno specifico dibattito nel suo blog dedicato all'istruzione superiore.
Un altro elemento che la dottoressa Tatum cita a sostegno della sua scelta è la volontà di avviare i giovani a uno sport che possano praticare anche dopo essere usciti dal college: se è pressochè inevitabile che una giocatrice di basket, calcio o pallavolo smetta di praticare tale sport non appena finito il college, è molto più probabile che decida di continuare se l’attività praticata è il nuoto, il tennis, lo yoga o il Pilates.
E per questo i programmi dello Spelman College prevedono da un lato la realizzazione di strutture e l’avvio di corsi di sport finalizzato al fitness, in luogo della pratica quasi esclusiva di sport di squadra finalizzati alla competizione, dall’altro una promozione più intensa e capillare dell’attività fisica fra i propri studenti, anche se per ora non è nei programmi rendere l’attività sportiva obbligatoria.
La realtà dello sport USA è completamente diversa da quella dello sport italiano, e di solo una parte degli elementi posti in evidenza da questa notizia troviamo riscontro nella realtà del nostro Paese, ma segnalare che anche nella tradizionale patria della competizione ci sia chi manifesta interesse per lo sport non agonistico ci sembra un elemento non di poco conto: anche in USA, sport non è solo gare e eccellenza, può essere anche salute e un migliore rapporto con se stessi e, automaticamente, con gli altri.