Gli enti del Terzo settore possono prevedere nel proprio assetto organizzativo un organo di amministrazione a composizione monocratica? O tale organo deve necessariamente avere struttura collegiale?
È questo in sintesi il quesito – a cui risponde la Nota n. 9313 del 16 settembre 2020 del Ministero del Lavoro – che prende spunto dalle due opposte posizioni dottrinali sul tema: l’una che ammette, in assenza di specifiche previsioni (e in analogia con le norme in materia societaria del codice civile), una configurazione monocratica; l’altra che, all’opposto, vede nel “favor partecipationis” presente nel Codice del Terzo Settore l’indice di una necessaria pluralità nella composizione dell’organo amministrativo.
La nota esclude anzitutto il ricorso all’analogia con le norme codicistiche dettate per le società, la cui disciplina – fatte salve le imprese sociali – appare estranea al Terzo settore. D’altra parte la molteplicità delle tipologie e delle caratteristiche dei soggetti collocati all’interno del Terzo settore non permette di accogliere tout court nemmeno la seconda delle due soluzioni prospettate, dal momento che il Codice individua varie tipologie di enti, ognuna con proprie specifiche caratteristiche.
Vero è che si possono – si devono – individuare tratti caratteristici di tutti i soggetti operanti nel terzo settore:
– assenza di scopo di lucro- esercizio di specifiche attività di interesse generale
– finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale che ne orientano l’operare.
E tuttavia proprio la “flessibilità” delle forme degli enti prevista dal Codice rende – prosegue la Nota – difficoltosa e forse inappropriata una risposta univoca al quesito prospettato. In altre parole “la struttura organizzativa dovrebbe essere una conseguenza, ragionevole e coerente, della natura, della vocazione dell’ente, dello stadio vitale in cui esso si trova, delle modalità più razionali che esso individua per perseguire le proprie finalità ultime e il proprio oggetto sociale”.
Trova pertanto spiegazione una disciplina differenziata tra associazioni e fondazioni là dove si guardi alla diversità di caratteristiche, obiettivi e natura delle due tipologie di enti:
– nell’associazione l’elemento peculiare è l’esistenza di una pluralità di associati che insieme perseguono uno scopo comune
– nella fondazione è l’esistenza di un patrimonio preordinato al raggiungimento di un determinato scopo.
Di qui coerentemente discende la diversità della struttura dell’organo amministrativo: nelle associazioni l’amministrazione, oltre che a gestire le risorse dell’ente, è chiamata a concretizzarne le finalità partecipative, applicando i principi di democrazia e uguaglianza; e ciò sempre in posizione subordinata rispetto all’assemblea, organo sovrano nelle decisioni relative alla vita associativa. Nel caso delle fondazioni, invece, l’operato dell’organo di amministrazione è teso a gestire un patrimonio destinato in conformità con la volontà originariamente espressa dai fondatori, e questo stesso operato è sottoposto sia al controllo interno sia a quello esterno dell’autorità governativa.
Per questi motivi è preferibile una composizione collegiale dell’organo di amministrazione nel caso delle associazioni ed è per contro accettabile un’amministrazione monocratica nelle fondazioni, sempre ferma restando la necessità che sia lo statuto a descrivere con puntualità le caratteristiche dell’organo.
La collegialità – conclude la Nota – può essere derogata giusto in fase iniziale, per un periodo limitato previsto comunque dall’atto costitutivo, qualora il numero di soci della costituenda associazione sia talmente esiguo da comportare problemi di funzionamento dell’ente o non consentire una effettiva distinzione tra organo di amministrazione e organo assembleare.